L’attuale Costituzione attribuisce alcuni strumenti di democrazia partecipata come il referendum abrogativo totale o par- ziale di leggi, le proposte di legge di iniziativa popolare e il CNEL (Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro).
Il referendum abrogativo
La storia dei referendum abrogativi è decisamente lunga pur essendo partita con qualche decennio di ritardo. La legge ordinaria di attuazione è del 1970 e prevede la raccolta di 500.000 firme di elettori o di 5 Consigli regionali (come avvenuto nel caso del recente referendum sulle “trivelle”).
I primi referendum furono molto partecipati e di grande rilievo sulla tematica dei diritti civili. Il referendum abrogativo per la legge sul divorzio – firme richieste da parte di settori della Democrazia Cristiana – si celebrò del 1974, mentre i due referendum sull’abrogazione della legge sull’aborto (uno cattolico, l’altro radicale) si celebrarono nel 1981. Entrambi confermarono la legge che si voleva abrogare. Successivamente, soprattutto per impronta del partito radicale, ci furono iniziative decisamente inflazionistiche dell’istituto referendario che hanno contribuito allo svilimento dello stesso con una parteci- pazione nel tempo sempre più bassa. Il problema della partecipazione non è secondario, in quanto per essere valido il referendum deve raggiungere il quorum di almeno la maggioranza degli elettori “avente diritto”.
A partire dal referendum sulla caccia (1987) sono state adottate campagne astensionistiche con il dichiarato tentativo di fare fallire il referendum – e di conseguenza salvare la legge il cui giudizio si voleva sottoporre ai cittadini – sommando i voti degli astensionisti ai contrari.
Per lunghi anni la campagna astensionistica ha funzionato e l’istituto del referendum – unico strumento di democrazia partecipata esistente di fatto – ne ha risentito profondamente. Il referendum è uno strumento pensato per dare voce alle minoranze a fronte di leggi di cui si chiede o meno la conferma popolare. Le campagne astensionistiche sono state favorite e incoraggiate addirittura da comportamenti governativi come nell’ultimo referendum sulle trivelle o da confessioni religiose come nel caso della Chiesa cattolica con il referendum sulla procreazione medicalmente assistita.
Il punto di svolta, negli ultimi anni, è stato senza dubbio il referendum sull’acqua pubblica che ha raggiunto il quorum nonostante la campagna astensionistica favorita dall’allora governo Berlusconi.
Un altro problema dell’istituto del referendum è dato dalla sua concreta attuazione. Se il referendum fallisce – per man- canza di quorum o per la conferma da parte degli elettori at- traverso il “no” all’abrogazione – nulla quaestio.
Se invece si procede all’abrogazione ci possono essere seri problemi di inattuazione come nel caso del recente referendum sull’acqua pubblica.
Una riforma della Carta costituzionale che vuole definirsi tale dovrebbe avere come obiettivo quello di allargare gli strumenti di democrazia partecipata. I sostenitori del Si lo propagandano come tale. L’unica novità è relativa all’innalzamento delle firme – 800 mila – per avere in cambio l’abbassamento del quorum: si passerebbe, infatti, dalla maggioranza degli aventi diritto alla “maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”. Altrimenti, con la raccolta delle 500 mila firme, rimane il vecchio quorum. 800 mila firme sono un traguardo che quasi mai è stato raggiunto durante le raccolte di firme referendarie.
Nulla invece viene detto sulla concreta attuazione delle di- sposizioni abrogate.
Viene rimandata all’approvazione di una successiva legge costituzionale l’istituzione di referendum popolari “propositivi e di indirizzo”. I referendum propositivi si potrebbe supporre che siano proposte di formazione di leggi ordinarie da sottoporre al referendum, mentre rimane oscura la previsione di referendum di “indirizzo”.
Le proposte di legge di iniziativa popolare
Lo stesso articolo 71 prevede anche generiche “altre forme di consultazione” proponibili “anche dalle formazioni sociali”. Cosa intenda il testo è un mistero. Sembra in un qualche modo la duplicazione di un istituto già previsto dalla Costitu- zione e non toccato dalla revisione proposta e contenuto nell’articolo 50 laddove si prevede che “tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. Il vigente istituto della “petizione” era stato già definito, da Paolo Barile – uno dei grandi costituzionalisti italiani del Novecento – , un “istituto arcaico”.
Per le proposte di legge di iniziativa popolare la riforma renziana propone dei cambiamenti sostanziali. L’istituto è stato fino a oggi sostanzialmente ignorato dal parlamento in quanto non risulta mai approvato un testo di legge di iniziativa popolare.
L’attuale limite – 50 mila firme – viene innalzato a 150 mila – garantendo però che “la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte” siano garantite dai regolamenti parlamentari che dovranno quindi essere modificati e di cui, al momento del voto ovviamente, non conosciamo il testo. Difficile quindi valutarne l’efficacia.
IL CNEL
Il Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro è un “organo ausiliario” dello Stato e, nelle intenzioni del legislatore, doveva essere la sede delle rappresentanze intermedie di “esperti e rap- presentanti delle categorie produttive”. Sono nominati rappresentanti di organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti, delle organizzazioni del commercio, dell’artigianato dell’industria. È – o dovrebbe essere – un organo di consulenza delle Camere e del Governo – e ha l’iniziativa legislativa. È formato tenendo conto dell’importanza “numerica e qualitativa” delle organizzazioni. Il Consiglio è composto da 64 consiglieri variamente nominati e designati. Non ha mai dato prova del suo funzionamento.
Di per sé della sua eventuale abrogazione, onestamente, con difficoltà qualcuno sentirà la mancanza. I sostenitori del Si giocano molto anche sulla immagine di manifesta inutilità che il CNEL ha dato di sé accompagnata da una non immotivata idea di “parcheggio” e ricompensa di sindacalisti, organizzazioni varie e, financo, politici in declino. L’immagine di inutilità è talmente marcata che l’abolizione del CNEL compare direttamente nel quesito referendario.
L’idea politica di fondo, però, del tutto coerente con tutto l’impianto di revisione costituzionale proposto è quello di abolire ogni corpo intermedio tra il “popolo” e il “governo”, o meglio, “il capo del Governo”.
Dal libro di Luca Benci – In 8 punti le ragioni del NO al referendum costituzionale