Amara sorte quella dei cosiddetti gufi sui presunti fasti renziani. Prima subiscono bordate di espressioni denigratorie o irridenti, manco fossero una quinta colonna di sabotatori della resurrezione nazionale; e poi, quando tocca purtroppo constatare che le peggiori previsioni si sono rivelate fondate, non possono che raddoppiare i motivi di preoccupazione perché non solo non è avvenuto il miracolo promesso dal governo, sordo a ogni critica e strategia alternativa, ma si sono persi molti mesi e gettate al vento ingenti risorse.
Un’atmosfera, una consapevolezza simile dev’esserci in queste ultime settimane in casa Cgil per gli eloquenti numeri squadernati dagli uffici di Corso d’Italia che tengono sott’osservazione fisco, finanza pubblica e mercato del lavoro, tracciando il bilancio del Job Act e degli incentivi erogati alle imprese nel 2015. Una spesa dello Stato pari a 6,1 miliardi di euro, tirate le somme, ha prodotto centomila occupati in più (di cui il 60 per cento a tempo determinato). Troppo poco rispetto agli ottocentomila posti di lavoro dissolti da otto anni di crisi. Un risultato «decisamente insoddisfacente», denuncia la Cgil, e il segno di una «spaventosa inefficienza»: i provvedimenti della legge di stabilità 2014 così magnificati dal governo (decontribuzione totale fino a 8.000 euro per ogni nuovo assunto con contratto a tutele crescenti e deduzione della quota lavoro a tempo indeterminato dall’imponibile Irap) non hanno inciso in maniera significativa. La svolta, che il Paese attende e vuole costruire, non c’è stata. Senza dimenticare che queste misure costeranno 8,3 miliardi di euro nel 2016 e 7,8 nel 2017 alla cassa statale.
Certo, nell’ultimo periodo, cifre e tabelle di varia fonte si sono alternate nelle slide di Palazzo Chigi e nei media più o meno compiacenti offrendo un’altalena di messaggi, parzialmente ottimisti o parzialmente catastrofici: dati Istat, registrazioni Inps, rilevazioni ministeriali, elaborazioni della Banca d’Italia e analisi di centri studi. Tuttavia, come la si giri o la si rigiri, il senso del fallimento sembra assodato, e i sindacati non hanno proprio nulla di cui rallegrarsi.
Rilancia la Cgil il suo Piano del Lavoro: stanziare dieci miliardi all’anno, con investimenti e assunzioni dirette in determinati settori, porterebbe occupazione effettiva in un triennio di quasi 740.000 persone, tra settore pubblico e settore privato. Ma un governo (e una maggioranza parlamentare) che ha puntato fin qui su politiche volte a comprimere i salari, i diritti dei lavoratori e il ruolo dei sindacati lasciando campo aperto al potere e alle convenienze delle imprese, saprà, vorrà invertire la rotta?