Assai di recente si è qui riferito dell’intricata vicenda che ha portato – pronube Finmeccanica, con il consenso di almeno tre governi di opposta natura – alla conquista cino-turca (80% del capitale, il poco resto in mano pubblica) della produzione esclusiva e della commercializzazione dei bus per il trasporto locale pubblico in Italia. Ma quanti simboli del “Made in Italy” non parlano più italiano, nei più svariati settori? Il calcolo non è facile, e oltre tutto non è materialmente possibile tener conto di tutti i passaggi azionari, data la crescente rapidità degli acquisti. Comunque proviamoci, alla grossa.
Un primo punto fermo risale esattamente a due anni addietro, con il passaggio di mano della marchigiana Indesit all’americana Whirlpool condito dall’avvio di una lunga e non risolutiva vertenza sindacale. In pochi ne avevano approfittato per ragionare sui due segnali di quella che, un po’ improvvidamente, il presidente del Consiglio aveva definito “un’operazione fantastica”. Primo segnale: non era, quello della Indesit, un caso isolato ma solo l’ultimo anello (per allora) di una lunga catena: sono più di cinquanta le grandi e notissime imprese che in appena qualche anno sono state cedute a gruppi stranieri. Qualcuno ha detto: è la globalizzazione. Niente affatto. Tale sarebbe se a fronte del cambiar padrone e nazionalità di tanti simboli italiani, ci fosse un’altrettale espansione italiana all’estero. Ma se si tolgono pochi casi (i più significativi: la Luxottica di Del Vecchio e l’espansione anche in Cina del gruppo Fabbri, quello dell’Amarena), sono proprio queste eccezioni che fanno la regola di un disastroso passivo del Made in Italy.
Il secondo segnale fa coppia col primo: il capitalismo italiano è probabilmente al tramonto (basta la vicenda western della Fiat a suggerirlo, o l’acquisto di Pirelli da parte dei cinesi che intanto fanno shopping azionario in tutte le più importanti banche, assicurazioni, enti pubblici e privati), la allarmante passività dei governi (anche di centrosinistra), l’assenza di segnali concreti di rilancio dell’economia, dell’occupazione, e soprattutto di una strategia di sviluppo industriale. Così è accaduto con il Laminatoio di Torino (sette vite operaie bruciate in un disastro per cui i responsabili non passeranno un solo giorno in galera) e le Acciaierie di Terni divorate dal colosso tedesco ThyssenKrupp. E così un’altra potenza della Germania come Volkswagen ha rastrellato l’una dopo l’altra le moto Ducati, il mito Lamborghini e la geniale progettazione della Italdesign di Giorgetto Giugiaro.
Solo metalmeccanica? No, i settori che interessano sono tanti, anzi tutti: dall’energia (Edison in mano ai francesi di Edf), ai trasporti (con l’araba Etihad che si è inghiottita quell’Alitalia mandata al fallimento con la sciagurata idea berlusconiana di affidare la compagnia ad un gruppo di pasticcioni), alle banche e alle assicurazioni: Bnl e Cariparma acquisite dai francesi (la prima è passata a Bnp-Paribas e la seconda al Crédit Agricole) e Ras è stata inglobata nella tedesca Allianz. Non è risparmiata neppure una (ex) eccellenza italiana come il calcio: l’Inter prima in mano indonesiane e ora cinesi, la Roma arricchisce il portafoglio del miliardario statunitense James Pallotta, un Berlusconi in affanno cede il Milan ai cinesi che si sono presi persino il piccolo Pavia, mentre si affacciano i nuovi miliardari russi: l’Unione Venezia sarà sicuramente solo l’antipasto di un più ricco banchetto non solo e non tanto nel mondo del pallone.
Ancora di più, due comparti – la moda e il settore alimentare -testimoniano il valore della denuncia del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, secondo il quale le imprese italiane sono sottocapitalizzate per circa 200 miliardi di euro rispetto alla media europea, con il risultato di strategie di corto respiro così da diventare facile preda di gruppi assai più potenti. Moda: ecco il caso esemplare di due big francesi come Lvmh e Kering. La prima ha via via acquisito marchi di grido come Fendi, Bulgari, Emilio Pucci, Loro Piana, Acqua di Parma e persino la famosa pasticceria Cova, nel cuore della Milano-bene. Mentre Kering, cioè Henri Pinault, si è aggiudicato Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Pomellato, DoDo, Sergio Rossi. E Valentino? E’ in mani arabe.
Stesso discorso per il settore alimentare. L’apripista delle acquisizioni è stata la svizzera Nestlé che ha progressivamente acquisito Buitoni, Perugina e San Pellegrino. Mentre i francesi di Lactalis si sono aggiudicata la corazzata Parmalat (non quando era stata mandata alla malora da Callisto Tanzi, ma quando è stata risanata da Enrico Bondi) arricchendo così un patrimonio già “italiano” costituito da marchi storici come Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori. E c’è spazio anche per i turchi della Toksoz che si sono accaparrati Pernigotti. Algida invece è diventata patrimonio della Unilever il colosso mangiatutto: anche le lamette da barba. Gli spagnoli hanno invece fatto shopping con Deoleo (che si è preso Carapelli e Bertolli), con Ebro (ora sono sue la Pasta Garofalo e il Riso Scotti), con Campofrio (salumi Fiorucci) e con Galina Blanca (brodi e preconfezionati Star). Dal canto suo Mitsubishi, altro colosso, ma giapponese, ha conquistato Ar (pomodori pelati) dimostrando che non si campa, bene, solo di automobili. E anche nella distribuzione abbiamo perso qualcosa: la catena di supermercati Gs è passata alla francese Carrefour e la mitica Rinascente è diventata thailandese.
E si sono elencate solo alcune tra le maggiori acquisizioni…
di Giorgio Frasca Polara